50 anni della Dichiarazione dei diritti dell'uomo

Pubblicato in Libertà di educazione, n.2, pp. 48/53,nov-dic 1998.

Nel 1998 cade il cinquantenario della “Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo” (d'ora in poi "D.U.") solennemente proclamata dall'Assemblea Generale dell'O.N.U. il 10 dicembre 1948.

Tale solenne dichiarazione venne elaborata da una Commissione delle Nazioni Unite istituita nel febbraio 1946, e fu approvata a larga maggioranza, con l'astensione della sola Arabia Saudita, del Sudafrica e dei paesi legati all'Unione Sovietica; essa veniva, significativamente, a succedere agli orrori della seconda guerra mondiale, in particolare a quelli scoperti nei Lager nazisti.

Precedenti (ascendenze)

I valori in essa affermati sono sostanzialmente i valori della civiltà cristiana, imperniati sulla dignità della persona umana, anche se, ovviamente, nel contesto laico e comunque multireligioso delle Nazioni Unite, nessun cenno è fatto a tale fondamento. Se il Cristianesimo è il referente culturale remoto della dichiarazione dei diritti dell'uomo, va anche detto che essa si inserisce in una linea di dichiarazioni (più o meno solenni) di diritti cha va dalla Magna Charta attraverso il Bill of Rights per sfociare nelle solenni dichiarazioni (sui diritti dell'uomo e del cittadino) prodotte dalla Rivoluzione francese.

Si può dire che mentre nella tradizione anglosassone la prospettiva di tali dichiarazioni è concreta e attenta alle condizioni effettive di applicazione, le dichiarazioni "continentali", ma soprattutto in quelle della rivoluzione francese sono spesso di carattere tanto altisonante e solenne quanto astratto. Si potrebbe dire che l'obbiettivo delle "carte" anglosassoni è più ristretto, ma effettivamente raggiungibile (e di fatto storicamente raggiunto), mentre la Rivoluzione francese ha emesso dichiarazioni il cui paradosso è che proprio mentre affermano teoricamente, e con la massima solennità, l'inviolabilità di un certo principio, gli stessi che le hanno emanate si accingono, senza soluzione di continuità, a violare tale principio, e nel modo più clamoroso. È stato più volte osservato ad esempio come alla solenne proclamazione del diritto, per ogni cittadino, di non essere arrestato "se non nei casi determinati dalla Legge, e secondo le forme da essa prescritte", con garanzia quindi di un regolare processo, sia seguita, nella prassi rivoluzionaria effettiva un sovvertimento di tale diritto quale mai si era avuto in precedenza (si veda la "legge dei sospetti", per cui alla condanna capitale non servivano prove, ma bastavano semplici indizi o sospetti)[1].

La dichiarazione universale dei diritti dell'uomo delle Nazioni Unite si situa a metà strada tra la tradizione anglosassone e quella francese.

presupposti

La D.U., nell'intenzione dei promotori, non avrebbe dovuto rimanere qualcosa di teorico, ma avrebbe dovuto vincolare praticamente, efficacemente, al loro rispetto tutti gli stati del mondo. Due sono i presupposti (teorici) che legittimano tale intento: l'esistenza di un diritto che precede le legislazioni dei singoli stati, ossia il diritto naturale, e l'accettazione da parte dei singoli stati di una autorità sovranazionale che in qualche modo limiti, controllandola, la sovranità nazionale.

1) L'esistenza di un diritto naturale è chiaramente implicata nella D.U., come un dato che precede la volontà del legislatore. Ad esempio nel preambolo vi si parla di un riconoscimento (recognition) di "inalienabili diritti" (inalienable rights). Questi dunque, come è tesi condivisa dalla filosofia di ispirazione cristiana (oltre dal moderno giusnaturalismo), a differenza di quanto pensavano Hobbes, Rousseau, Marx, Hegel e Comte (per citarne solo alcuni), sono dei diritti che non dipendono da fattori storicamente determinabili, rapporti di forza o convenienze contingenti, e nemmeno sono oggetto della scelta di una volontà generale, ma sono un dato metastorico che precede il diritto positivo. Infatti sono inalienabili: dunque non soggetti a contrattazione o a fluttuazione. Tant'è che non si tratta di crearli, di stabilirli con un atto arbitrario, bensì di riconoscerli. Si può notare come in tal senso la stessa decisione di istituire il Tribunale di Norimberga obbedisce a questo presupposto: il riconoscimento di un diritto naturale che precede e giudica quello positivo, il riconoscimento di àgraptoi nòmoi, che nessuna legge scritta può cancellare dalla coscienza umana, come già l'Antigone della tragedia greca aveva visto. Antigone infatti è colei che sfida l'autorità politica vigente (nella fattispecie lo zio, Creonte, divenuto Re di Tebe dopo la tragica fine del padre, Edipo), che aveva fatto divieto di seppellire il fratello di Antigone, come nemico della polis, in nome appunto delle "leggi non scritte". Creonte non può comandare di violare le "leggi non scritte" (e seppellire i morti appartiene appunto a tale ambito), che vengono prima delle leggi scritte e le giudicano. Analogamente è tesi più volte ribadita dal Magistero della Chiesa, memore dell'insegnamento di Cristo e delle parole di San Pietro ("bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini") che nessuna legge statale può pretendere di cassare la legge naturale. Se uccidere è male, resta male anche dopo che una legge dello stato lo avesse legittimato (come con l'aborto o con il genocidio). E la legge naturale non è lontana dalla mente e dalla coscienza degli uomini: si tratta di norme elementari e chiare, che si stagliano nitide sullo sfondo di qualsiasi coscienza minimamente onesta. Pertanto diventa legittimo giudicare degli uomini che pur non avendo violato il diritto positivo vigente nel loro paese, la Germania nazista, si sono nondimeno resi responsabili di "crimini contro l'umanità", per aver contraddetto quei principi di diritto naturale che ogni coscienza umana può chiaramente riconoscere come assolutamente vincolante e prioritario nei confronti delle leggi statali.

2) Ma non basta riconoscere un diritto che precede quello positivo: occorre che si ammetta la possibilità di controllare che effettivamente che i diritti inalienabili dell'uomo siano rispettati negli stati di tutto il mondo. Come dicevamo ciò implica una qualche forma di limitazione della sovranità nazionale. L'interessamento a ciò che avviene in un qualsiasi stato, in ordine a questo livello, basilare, dei diritti umani, non dovrà allora più essere considerato una intrusione indebita, una ingerenza illegittima.

Suddivisione

La D.U. inizia con due affermazioni di principio di carattere generale concernenti l'eguaglianza tra tutti gli esseri umani e il loro diritto a fruire della libertà e degli altri diritti senza alcuna forma di discriminazione. Gli articoli che seguono vengono solitamente raggruppati nelle categorie di diritti civili, diritti politici, diritti economico-sociali e diritti culturali. Ricordiamo in sintesi i punti più importanti di tali categorie.

a) diritti civili: in positivo si tratta del diritto fondamentale "alla vita, alla libertà e alla sicurezza" (a. 3). Si può notare la genericità di formulazione di tali diritti: ad esempio il diritto alla vita non specifica chi ne sia il soggetto fruitore (anche il nascituro?), né viene formulato in modo da escludere una possibilità come l'eutanasia.

Una maggior precisazione è ricavabile, in filigrana, dal risvolto negativo: viene esclusa la schiavitù (a.4), la tortura (a.5), l'arbitrio dell'autorità giudiziaria (a. 6/11) o di polizia (a. 7/14).

Ulteriori specificazioni vengono fatte negli articoli dal 15 al 20, che riguardano le relazioni interpersonali: ogni individuo ha diritto alla relazione sociale (cittadinanza, a.15), familiare (a.16: e il matrimonio deve essere liberamente contratto) e politico-associativa, e deve potersi liberamente esprimere in ambito intellettuale (a. 18 e 19: libertà "di pensiero, coscienza e religione") e materiale (diritto alla proprietà). Da notare come la formulazione del diritto alla proprietà (avversata da parte del ben rappresentato mondo comunista) risenta di una prudente genericità: "ogni individuo, da solo o con altri ("alone as well as in association with others"), ha diritto di proprietà", dove il "con altri" lascia aperta la strada a una proprietà collettiva e forse anche statale dei beni economici. Duri da digerire per il mondo comunista dovettero essere pure gli articoli 18 e 19, dove si proclama la libertà di espressione; questi articoli entrano in rotta di collisione anche con i principi dell'Islam, laddove si afferma il diritto di ogni individuo a "cambiare religione o credo" (cosa proibita ad un mussulmano, e con la massima severità).

b) diritti politici: solo un articolo tutela tali diritti. Segno evidente dell'imbarazzo dei rappresentanti del mondo comunista a riconoscere dei principi di democrazia rappresentativa, bollati dalla interpretazione marxista come espressione di una classe (la classe sfruttatrice). Vi si dichiara il diritto a "partecipare al governo del proprio paese, sia direttamente, sia attraverso rappresentanti liberamente scelti". Da notare come il direttamente (directly) suoni almeno un pò come ironico: se già in una piccola comunità, come un paese, si rende necessario un sistema di rappresentanza (consiglio comunale, sindaco), diventa difficile immaginare come gli individui potrebbero realmente pensare di incidere sulla vita di uno stato (di ben maggiori dimensioni) ricorrendo a un intervento "diretto". L'idea di democrazia diretta, di ascendenza rousseauiana, è in effetti introdotta ambiguamente: può significare l'opportunità che il ricorso a referendum affianchi il normale iter delle decisioni parlamentari (il che renderebbe tale aggiunta pienamente compatibile con la democrazia occidentale), ma potrebbe anche essere inteso come una modalità (esaurientemente) sostitutiva di quella rappresentativa. Insomma si lascerebbe aperta l'immagine di un popolo, che non ha bisogno di rappresentanti, perché si esprime direttamente: in piazza. Sotto il vigile controllo dei "guardiani della rivoluzione".

L'imbarazzata ambiguità di questa ristretta sezione della D.U. si evidenzia anche laddove si parla del voto: si auspica che le elezioni siano "periodiche e genuine (genuine)" e "a voto segreto o secondo una procedura equivalente che assicuri la libertà di voto"; è davvero difficile immaginare una procedura di voto non segreto che assicuri la libertà di voto quanto la assicura il voto segreto; tanto più se in presenza di regimi illiberali, che esercitano svariate forme di pressione sull'opinione pubblica.

c) diritti economico-sociali: gli articoli dal 22 al 25 segnano una rivincita dei valori cari alla tradizione socialista, ma non meno cari alla dottrina sociale della Chiesa. Vi si afferma infatti, contro un esasperato liberalismo individualista, come gli stati non possano disinteressarsi delle condizioni materiali effettive dei loro cittadini. Le leggi del mercato non possono essere sufficienti, occorrono delle garanzie: perché sia assicurato ad ognuno un lavoro, una retribuzione "equa e soddisfacente", una giusta componente di riposo e di svago.

d) diritti culturali: vi si afferma il diritto tutti all'istruzione, specificando che almeno quella "elementare" deve essere gratuita e obbligatoria, quella tecnico-professionale accessibile a tutti, e quella "superiore" deve comunque essere accessibile, "sulla base del merito", a tutti (a.26). Tra i valori che la scuola deve fornire la D.U. insiste sulla "comprensione, la tolleranza e l'amicizia" tra i popoli e le religioni, per favorire così la pace (a.27). Importante è poi l'ultimo comma dell'articolo 27: "i genitori hanno diritto di priorità nella scelta del tipo di istruzione da impartire ai loro figli". Si tratta si un diritto che la cultura cattolica ha riaffermato con vigore nell'età contemporanea, di fronte ai tentativi ricorrenti di attribuire allo stato la prerogativa di decidere il tipo di educazione da "impartire" alle nuove generazioni. Vengono poi proclamati il diritto di ogni individuo a fruire della cultura e del progresso scientifico (anche in età adulta).

La dichiarazione si conclude con tre articoli che dovrebbero sancire la loro effettiva applicabilità: nel 28 si chiarisce come questi diritti debbano essere realmente applicati (implicitamente: col rimuovere gli eventuali ostacoli alla loro applicazione), nel 29 si osserva (tra l'altro) come la reale operatività dei diritti implichi anche una assunzione di responsabilità del singolo individuo nei confronti della comunità cui appartiene (e che è condizione[2] della sua realizzazione umana), e nel 30 si dichiara, in modo per la verità un po’ fumoso, che nessuno stato può estrapolare una parte della D.U. per essere dispensato dalla altre parti: l'osservanza dei diritti deve essere integrale.

per una valutazione

Ci sembra si debbano porsi due domande: quanto i "diritti universali" rispecchino una integrale e realistica concezione dell'uomo, e quanto la loro proclamazione sia stata e sia praticamente efficace.

1. Alla prima questione si può rispondere che nella D.U. non si trovano affermazioni che contrastino con la antropologia di ispirazione cristiana. Non vi è nessuna affermazione esplicita che non sia condivisibile. Il problema è un altro: ossia che tale condivisibilità è pagata al prezzo, come già osservato, di una certa genericità e vaghezza. Ad esempio non si trova nella D.U. una chiara e netta tutela della vita della persona, come una condanna dell'aborto e dell'eutanasia, né si trova delineata con esplicita chiarezza una immagine di famiglia monogamica ed eterosessuale (la formulazione resta generica: "gli uomini e le donne hanno diritto di sposarsi", ed hanno eguali diritti "durante il matrimonio e all'atto del suo scioglimento", a.16). Non è tuttavia il caso di insistere troppo su tali limitazioni, più che comprensibili dato il carattere ideologicamente composito delle Nazioni Unite. Né si può trascurare il fatto che comunque, tra le tradizioni ideologiche (cristiana, laico-individualistica, marxista e islamica) quella che più può trovarsi integralmente rispecchiata nella D.U. sia proprio quella cristiana. In effetti ognuna delle altri matrici culturali non può non trovare dei punti esplicitamente non condivisibili, ciò che invece abbiamo visto non accade per la concezione cristiana. Rimarchiamo in particolare come sia positiva la affermazione della libertà di educazione (a.27), e come il fondamento del potere pubblico non sia collocato (come per le dichiarazioni della rivoluzione francese) nella sovranità popolare, ma sia considerato con una formulazione ambigua, che lascia spazio all'idea, cristiana, che la sovranità risieda, in ultima istanza, in Dio.

2. È stato spesso osservato che l'effettiva applicazione dei diritti ha costituito e costituisce una pesante obiezione alla utilità della loro solenne proclamazione. Si è assistito per decenni (fino al 1989) al paradosso che un consistente gruppo di Stati, che pure faceva parte a pieno titolo delle Nazioni Unite (il mondo comunista, guidato da quella Unione Sovietica, che aveva un posto permanente nel Consiglio di sicurezza, con diritto di veto), ha platealmente violato diversi articoli della D.U., quelli relativi alla libertà. Ma lo stesso si potrebbe dire di molti paesi islamici, sempre sul tema dei diritti politico-civili. Volendo estendere a 360 gradi una analisi imparziale, si potrebbe dire che gli stessi paesi occidentali rispettano in toto la D.U. ?

Sarebbe però ingiusto negare una qualche validità alla D.U.: il fatto che essa sia per molti aspetti generica e che la sua applicazione sia risultata parziale, non toglie che essa resti un solenne documento, che, laico e proclamato dalla più alta assise che sia oggi laicamente e universalmente riconoscibile, sancisce in modo comunque esteso e articolato valori in cui si rispecchia la bimillenaria tradizione di difesa della dignità umana che ha nel Cristianesimo la sua sorgente. Ed è un bene che gli esseri umani e gli stati, pur nella loro incoerenza, riconoscano il principio che li vincola a tali valori. È un bene non perché ciò che si è solennemente proclamato e riconosciuto non possa poi essere contraddetto praticamente, ma perché sicuramente lo può essere molto meno e perché chiunque, individuo o associazione, può avere in tale riconoscimento, un'arma contro la sopraffazione.

note


[1] Potremmo osservare, più in generale, che questo è il paradosso di tutte le ideologie totalizzanti dell'età detta (fino a quando?) contemporanea; il caso più emblematico è quello del comunismo marxista, con le sue dichiarate aspirazioni di totale riplasmazione della società, tale da sradicarne completamente il male, esaltando l'umano al massimo grado, e finito poi in una delle più tragiche negazioni dei diritti umani.

[2] Questa formulazione è accettabile in quanto la comunità politico-sociale sia vista come condizione necessaria, stante che essa non sia sufficiente alla realizzazione umana.